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responsabilità penali del revisore cass. 18686 -15-5-2012
Nei bilanci comunali falsi i revisori rischiano il concorso in falso ideologico
Al fine di evitare il concorso nel reato di cui all’art. 479 c.p., occorre eseguire correttamente i propri compiti di vigilanza
Rischiano una condanna per concorso in falso ideologico i revisori degli enti locali che, consapevoli delle “scorrettezze” operate dai redattori dei rendiconti, non si attivino adeguatamente per evitarne l’approvazione.
Sono queste le rilevanti conclusioni desumibili dalla sentenza 15 maggio 2012 n. 18686 della Corte di Cassazione.
Il sindaco, il vicesindaco e il dirigente della direzione risorse finanziarie di un Comune, insieme ai componenti dell’organo di revisione, venivano condannati in primo grado per falso ideologico di pubblico ufficiale in atto pubblico (art. 479 c.p.). Il concorso tra tali soggetti, infatti, aveva determinato l’omissione di debiti e l’indicazione di crediti inesistenti del Comune, inducendo il Consiglio comunale all’approvazione di una serie di rendiconti annuali non conformi al vero (ovvero quelli relativi agli esercizi dal 2000 al 2004). La competente Corte d’Appello riformava la sentenza del Tribunale e proscioglieva tutti gli imputati, ritenendo che i fatti non costituissero reato per mancanza, in particolare, del necessario elemento psicologico.
Contro tale decisione ricorrevano per Cassazione il Comune, quale parte civile, e il competente Procuratore Generale. La Suprema Corte accoglie i ricorsi, rilevando l’esistenza di taluni vizi motivazionali.
In particolare, osservano i giudici di legittimità, a fronte dell’omissione di debiti e dell’indicazione di crediti inesistenti, da reputarsi “dimostrate” alla luce della produzione documentale fornita dalla pubblica accusa, si traeva l’illogica conseguenza della mancanza di rilevanza penale della condotta per carenza dell’elemento soggettivo.
Il delitto di falso ideologico di pubblico ufficiale in atto pubblico, di cui all’art. 479 c.p., è connotato, a livello soggettivo, dal dolo generico; per cui è sufficiente la consapevolezza della “immutatio veri” (vale a dire del falso) e non è richiesto l’animus nocendi vel decipiendi (ovvero l’intenzione di cagionare un danno o di raggirare il destinatario del documento). Il dolo, quindi, deve essere escluso solo quando la falsità risulta essere oltre o contro la volontà dell’agente. La volontà e la consapevolezza di formare un atto falso, peraltro, non vanno confuse con la volontà di servirsi di esso per raggiungere fini contra legem; con la conseguenza che il delitto sussiste non solo quando la falsità sia compiuta senza l’intenzione di nuocere, ma anche quando la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno. Tali rilievi rendono non condivisibile il passaggio motivazionale della sentenza di merito di secondo grado, che nega l’elemento psicologico necessario per l’integrazione della fattispecie – in capo al sindaco, al vicesindaco e al dirigente – in ragione della mancanza di un movente, della tenuta confusa e incompleta dei documenti contabili e del mancato risanamento delle finanze del Comune, rilevando esclusivamente la coscienza e volontà di dare un’immagine non corrispondente al vero ai conti del Comune.
La medesima contraddittorietà di motivazione è riscontrata con riguardo alla posizione dei revisori dei conti. Infatti, la Corte d’Appello – dopo aver sottolineato come essi, pur essendo a conoscenza dell’esistenza di gravi esposizioni debitorie, non si fossero preoccupati di approfondirne la consistenza e di rendere “saldi” e in pareggio i conti del Comune – si esprimeva in senso giustificativo di tali comportamenti. Irrilevanti le raccomandazioni contenute nelle relazioni
Al fine di evitare il concorso nel reato di cui all’art. 479 c.p., occorre eseguire correttamente i propri compiti di vigilanza
Rischiano una condanna per concorso in falso ideologico i revisori degli enti locali che, consapevoli delle “scorrettezze” operate dai redattori dei rendiconti, non si attivino adeguatamente per evitarne l’approvazione.
Sono queste le rilevanti conclusioni desumibili dalla sentenza 15 maggio 2012 n. 18686 della Corte di Cassazione.
Il sindaco, il vicesindaco e il dirigente della direzione risorse finanziarie di un Comune, insieme ai componenti dell’organo di revisione, venivano condannati in primo grado per falso ideologico di pubblico ufficiale in atto pubblico (art. 479 c.p.). Il concorso tra tali soggetti, infatti, aveva determinato l’omissione di debiti e l’indicazione di crediti inesistenti del Comune, inducendo il Consiglio comunale all’approvazione di una serie di rendiconti annuali non conformi al vero (ovvero quelli relativi agli esercizi dal 2000 al 2004). La competente Corte d’Appello riformava la sentenza del Tribunale e proscioglieva tutti gli imputati, ritenendo che i fatti non costituissero reato per mancanza, in particolare, del necessario elemento psicologico.
Contro tale decisione ricorrevano per Cassazione il Comune, quale parte civile, e il competente Procuratore Generale. La Suprema Corte accoglie i ricorsi, rilevando l’esistenza di taluni vizi motivazionali.
In particolare, osservano i giudici di legittimità, a fronte dell’omissione di debiti e dell’indicazione di crediti inesistenti, da reputarsi “dimostrate” alla luce della produzione documentale fornita dalla pubblica accusa, si traeva l’illogica conseguenza della mancanza di rilevanza penale della condotta per carenza dell’elemento soggettivo.
Il delitto di falso ideologico di pubblico ufficiale in atto pubblico, di cui all’art. 479 c.p., è connotato, a livello soggettivo, dal dolo generico; per cui è sufficiente la consapevolezza della “immutatio veri” (vale a dire del falso) e non è richiesto l’animus nocendi vel decipiendi (ovvero l’intenzione di cagionare un danno o di raggirare il destinatario del documento). Il dolo, quindi, deve essere escluso solo quando la falsità risulta essere oltre o contro la volontà dell’agente. La volontà e la consapevolezza di formare un atto falso, peraltro, non vanno confuse con la volontà di servirsi di esso per raggiungere fini contra legem; con la conseguenza che il delitto sussiste non solo quando la falsità sia compiuta senza l’intenzione di nuocere, ma anche quando la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno. Tali rilievi rendono non condivisibile il passaggio motivazionale della sentenza di merito di secondo grado, che nega l’elemento psicologico necessario per l’integrazione della fattispecie – in capo al sindaco, al vicesindaco e al dirigente – in ragione della mancanza di un movente, della tenuta confusa e incompleta dei documenti contabili e del mancato risanamento delle finanze del Comune, rilevando esclusivamente la coscienza e volontà di dare un’immagine non corrispondente al vero ai conti del Comune.
La medesima contraddittorietà di motivazione è riscontrata con riguardo alla posizione dei revisori dei conti. Infatti, la Corte d’Appello – dopo aver sottolineato come essi, pur essendo a conoscenza dell’esistenza di gravi esposizioni debitorie, non si fossero preoccupati di approfondirne la consistenza e di rendere “saldi” e in pareggio i conti del Comune – si esprimeva in senso giustificativo di tali comportamenti. Irrilevanti le raccomandazioni contenute nelle relazioni
francodan- Messaggi : 6152
Data d'iscrizione : 07.10.10
Località : 4 comuni e una unione in bassa lomellina
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